L’obesità viene considerata una vera e propria epidemia globale che caratterizza soprattutto i paesi sviluppati e industrializzati.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che nell’intero Pianeta sono in sovrappeso oppure obesi il 50% degli adulti e il 30% di bambini e adolescenti. In Italia, sono 25 milioni in sovrappeso o obesi – secondo il rapporto Osservasalute 2020 Tra questi circa il 46% degli adulti è in una condizione di eccesso ponderale, mentre una persona su 10 è obesa (10,9%).
Nonostante i dati italiani siano stabili nel tempo, non consentono ugualmente di abbassare la guardia di fronte a un problema di salute pubblica che riguarderà nei prossimi 30 anni circa 92 milioni di cittadini solo nei Paesi OCSE.
Nella letteratura scientifica, infatti, all’obesità viene imputata l’insorgenza di patologie rilevanti per la salute e dagli esiti potenzialmente fatali. Al punto che non è allarmistico considerare l’adipe una vera e propria bomba ad orologeria che va disinnescata in tempo, prima che possa creare all’organismo danni irreparabili.
Ci soffermeremo allora nei prossimi paragrafi sulle cause e le conseguenze della condizione di obesità, senza tralasciare spunti per un trattamento efficace e sufficientemente risolutivo.
L’Indice di Massa Corporea si ottiene dividendo il peso (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri).
Eta'(ad Es: 35)
Altezza (in cm Es: 170)
Peso (in kg Es: 70)
Le definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono:
sovrappeso = IMC da uguale o superiore a 25 fino a 29,99
obesità = IMC uguale o superiore a 30.
L’obesità è una condizione patologica caratterizzata da un anormale e eccessivo accumulo di grasso. Un individuo può definirsi obeso quando l’indice di massa corporea (BMI) è superiore a 30 kg/m2.
Il BMI si calcola mettendo in relazione il peso corporeo con l’altezza. Tanto maggiore è il risultato che si ottiene, tanto maggiore sarà l’eccesso di grasso nell’organismo.
L’obesità è il risultato diretto di uno squilibrio prolungato nel tempo tra introito calorico e spesa energetica. Tradotto in parole più semplici di abitudini alimentari sbagliate che comportano un eccessivo accumulo di calorie, rispetto a quelle consumate con l’attività fisica quotidiana.
L’eccesso non consumato viene trasformato in trigliceridi che vengono immagazzinati sotto forma di grasso nel tessuto adiposo.
Se è vero che un’alimentazione squilibrata, spesso combinata alla sedentarietà, è la causa principale del rischio obesità, è pur vero che le vere cause della condizione di obesità sono di natura multifattoriale.
All’insorgenza della patologia, infatti, concorrono:
I rischi per i pazienti obesi riguardano in particolare:
Quasi due milioni di persone ogni anno nel mondo muoiono per complicanze attribuibili all’obesità. Ma perché l’eccesso di grasso, è un serio fattore di rischio per la salute, in particolare per malattie metaboliche e cardiovascolari?
La risposta la troviamo nel comportamento del tessuto adiposo. Non si tratta soltanto di un semplice e inerte deposito di grasso, in cui si accumula energia in eccesso sotto forma di trigliceridi.
Il tessuto adiposo è in realtà un organo endocrino attivo che produce sostanze coinvolte nella modulazione dell’attività infiammatoria (citochine, leptina, adiponectina).
Questo “organo” comprende sia il grasso sottocutaneo che quello viscerale (VAT Visceral Adipose Tissue), che è il grasso che si accumula tra e negli organi della cavità addominale, metabolicamente più attivo del primo e, dunque, maggiormente coinvolto nelle patologie associate all’obesità.
All’aumentare del grasso viscerale diminuisce la produzione della adiponectina, una citochina determinante nell’utilizzo dei depositi di grasso a livello muscolare, ma anche nella riduzione di quei processi che apportano acidi grassi al fegato e formano il glucosio.
Di contro, aumenterebbero altre due molecole: la TNF-α (Tumor Necrosis Factor α), probabilmente coinvolta nella comparsa di insulinoresistenza, e la PAI-1 (Inibitore dell’attivatore del plasminogeno) considerata un fattore di rischio per la formazione di trombi.A questa disfunzione del tessuto adiposo, dunque, potrebbe essere determinante nell’insorgere di gran parte delle patologie che caratterizzano i soggetti obesi.
A livello globale i problemi di obesità sono quasi triplicati a partire dal 1975.
Preoccupa il fatto che, ormai, il problema dell’obesità non riguarda più soltanto i paesi ad alto reddito, ma comincia a diffondersi anche in quelli a basso e medio reddito, acquisendo i contorni di una vera epidemia.
Un’epidemia che però si può prevenire.
La dieta chetogenica a basso contenuto calorico (Very Low-Calorie Ketogenic Diet – VLCKD) è di fatto un protocollo alimentare ipocalorico e ipoglucidico, il cui fine è quello di indurre uno stato di chetosi.
La VLCKD rappresenta una valida opzione terapeutica nel trattare pazienti obesi poiché – a differenza di una tradizionale dieta ipocalorica – è particolarmente efficace su:
Come ho già illustrato in precedenza, la strategia più comunemente impiegata per il trattamento dell’obesità è un regime alimentare ipocalorico, caratterizzato da un elevato introito di carboidrati complessi a fronte di ridotti quantitativi di grassi totali.
Tuttavia, nella letteratura scientifica permangono dubbi sulla reale efficacia di questo approccio dieto-terapeutico d’elezione. Ad oggi, infatti, non vi sono dati definitivi su quale sia il protocollo dietetico più efficace.
Anzi, alcuni studi scientifici dimostrerebbero che le diete a basso tenore di lipidi inducono un modesto calo ponderale, con elevati tassi di drop-out nel lungo periodo.
Altre ricerche cliniche hanno evidenziato lo stretto legame tra introito di carboidrati ed elevato rischio di mortalità totale. Rischio che si ridurrebbe, invece, con un maggiore apporto di grassi totali, in particolare di tipo polinsaturi.
Ciò, da un lato metterebbe in discussione il dogmatico modello calorico dell’obesità, dall’altro affiancherebbe ad esso quello che la letteratura scientifica chiama “the carbohydrate-insulin model of obesity”. Sulla scia di queste evidenze scientifiche trova terreno fertile la riscoperta della dieta chetogenica.
Che uno stato di chetosi possa influenzare positivamente l’organismo ed essere terapeutico per alcune patologie è un’osservazione fatta già millenni fa sugli effetti del digiuno sul corpo, condizione chetogenica per eccellenza.
Fu poi negli anni ‘70 del 900 che lo studioso George Blackburn introdusse il concetto di Protein-Sparing Modified Fast (PSMF), un regime dietetico altamente ipocalorico e basato su un sufficiente apporto di proteine e di acidi grassi essenziali. Questo protocollo consentiva un rapido decremento ponderale preservando al contempo la massa muscolare.
Ad oggi, la dieta chetogenica a bassissimo contenuto di calorie (VLCKD) costituisce una soluzione terapeutica efficace e valida per il trattamento di svariate condizioni cliniche:
Ma in cosa consiste questo approccio dieto-terapeutico? La VLCKD non fa che simulare gli effetti del digiuno mediante:
Non si tratta però di un regime iperproteico, poiché l’introito giornaliero di proteine ammonta a circa 1,2–1,5 g/kg di peso corporeo ideale.
La carenza di carboidrati risulta determinante nella riduzione dei trigliceridi, sull’abbassamento del colesterolo totale e sull’aumento di quello HDL. Inoltre, inibisce la gluconeogenesi e incrementa la chetogenesi epatica; tutti effetti benefici nei confronti di un’eventuale steatosi epatica.
La VLCKD è poi efficace nel preservare la massa muscolare, riducendo anche il rischio di sarcopenia e della conseguente riduzione del metabolismo basale durante il protocollo di restrizione.
Per intraprendere questo percorso alimentare è necessario svolgere preventivamente analisi ed esami approfonditi, come la bioimpedenziometria (BIA), ovvero l’analisi della composizione corporea ideale per rilevare i livelli dell’acqua corporea totale e valutare l’effetto anti-catabolico della massa muscolare dell’individuo.
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